mercoledì 2 marzo 2011

Il discorso del re

Regia di Tom Hooper. Con Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter.
Il film è incentrato sulla coppia terapeuta/paziente e sulla narrazione di un rapporto di tipo psicoanalitico che lega un soggetto balbuziente e insicuro al suo "guaritore".
Tra il futuro re d'Inghilterra, in questo caso Giorgio VI, e il suo logopedista si instaura un legame di odio/amore tipico del setting analitico.
Il paziente sembra voler dire al terapeuta: "Ti odio ma ho bisogno di te. Ti detesto e ti disprezzo ma non posso fare a meno, come futuro re, di imparare da te a parlare in pubblico al mio popolo." Mai come in questo caso l'insegnamento del verbo, in qualunque modo si intenda interpretarne il significato, assume un carattere euristico e metaforico così forte.
E' la riedizione del rapporto che intercorre tra genitore e figlio e la più importante spinta verso la guarigione che in psicoanalisi prende il nome di transfert.
Come spesso accade il paziente non ha nessuna intenzione di guarire, anche se ne ha immenso bisogno, sopratutto nel momento in cui saprà di venire incoronato al posto del fratello che abdica a causa della donna amata.
Ma l'essere re o il divenirlo fortuitamente, come capitò a Giorgio VI, significa prima di tutto conquistarsi il diritto di signoreggiare sulle proprie paure, sul proprio stato di "essere" sottomesso a un destino biologico, in questo caso la disfunzione della loquela, destino che ha trasformato letteralmente l'individuo in una sequenza di balbettii da neonato.
E' da notare che in effetti questo futuro re non sembra nemmeno un re ma un paziente qualunque.
Ha ragione Elena Stancanelli a scrivere sul Venerdì di Repubblica del 25 febbraio 2011, nella rubrica Zona critica a pagina 154, di aver trovato "irragionevole" e anche "un pò stucchevole" il personaggio.
In realtà ogni paziente è spesso entrambe le cose ma tuttavia è proprio su questi scarti della psiche che è necessario lavorare analiticamente, e prima di tutto su noi stessi nel difficile compito di accettarli.
La figura del terapeuta possiede poi nella pellicola alcune caratteristiche fondamentali che mi hanno interessato. E' prima di tutto uno straniero, più precisamente un australiano, con tutti i pregiudizi che questo ha sempre comportato per gli Inglesi.
Dal punto di vista antropologico inoltre è lo straniero che possiede il fascino e analiticamente è una figura che rappresenta la seduzione , ciò che porta via con sè sulle tracce della guarigione.
E poi il logopedista Rush possiede nel film un bene prezioso e quasi insostituibile: una vita emotiva stabile ma estremamente creativa. Un inusuale rapporto di rispetto e collaborazione con la moglie, rapporto di cui si sono da tempo perse le tracce nella nostra vita civile. Ma sopratutto non ha legami con lo stato, con l'autorità costituita. Non è vincolato, come lo è uno psichiatra o uno psicologo, alla figura del "pubblico ufficiale", anzi non ha neppure un'abilitazione o un "pezzo di carta" che lo qualifichi. Ma è proprio questa la sua forza.
E' in sostanza una figura "etica" che si sostiene quasi esclusivamente sulla sua grande esperienza acquisita e maturata trattando i traumi di guerra dei reduci. Ricordiamo la sequenza in cui il medico di corte consiglia al futuro re, ai fini della guarigione, di tentare di parlare con dei sassolini in bocca; metodo classico ma non adatto all'occasione.
Ricordo ancora che lo stesso Freud cercò sempre di evitare l' eccessiva medicalizzazione della sua terapia consigliando di lasciare il giusto spazio alla pratica clinica dei non medici. Pratica empirica basata sul'esperienza che oggi sempre più spesso viene fin troppo facilmente definita "selvaggia" preferendole assurdamente una preparazione quasi esclusivamente accademica.
Anche della figura etica di cui ho parlato se ne sono da tempo perse le tracce.
In sostanza il personaggio assume le sembianze di un vice padre, un amico, un tutore, uno che soffre per la condizione del paziente e fa di tutto quanto è in suo potere un'arma per strappare alla malattia il malcapitato che si dibatte e, irragionevolmente e goffamente, non vuole guarire.
Il discorso finale commuove ovviamente non tanto per quel che dice ma per come lo dice.
Una ulteriore conferma, sostenuta anche da recenti ricerche neuroscientifiche, dell'assunto che la cura della sostanza passa anche attraverso la forma.

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