I luoghi possiedono per noi un significato in quanto sono adesi, strettamente connessi a una stratificazione di sensazioni, di immagini che li fa vivere e che non è necessariamente la nostra.
Questo incontro parla anche di disegni che ognuno di noi ha fatto quando era bambino e che ogni bambino farà allo scopo di delimitare un proprio territorio psichico; dell’incuria che spesso l’uomo dimostra nei confronti del suo destino; della violenza che la tecnologia moderna opera sui nostri luoghi e sul nostro mondo, e infine degli stretti rapporti che intercorrono tra musica e architettura.
Del camminare silenzioso in una strada di campagna, di cortili abbandonati, della pioggia che cola sui vetri , di bambini che sentono musica e giocano a costruire castelli.
Sono le povere cose che testimoniano a volte un mondo perduto, a volte ritrovato, le cui tracce appena visibili costituiscono il tessuto della nostra vita.
Tracce, appunto, di territorio.
Nel territorio si innesta a forza l’architettura che da sempre ha cercato e trovato un profondo colloquio con i luoghi.
Ma negli ultimi cinquant’anni non più.
Roberto Peregalli, allievo dell’architetto Renzo Mongiardino nel suo ultimo libro
“I luoghi e la polvere. Sulla bellezza dell’imperfezione” racconta che nell’800 in Inghilterra sono nate diverse scuole di maggiordomi . Tra gli insegnamenti più complessi e difficili c’era la pulitura degli argenti. Il segreto è lasciare nelle scanalature gli annerimenti del tempo, cioè pulire solo la superficie senza toccare le “rughe” degli oggetti..
Questo è il tipo di sensibilità che dobbiamo imparare quando parliamo di armonia, musica, architettura, territori.
Descrizione del luogo della fobia.
Quando il bimbo inizia a disegnare…all’età di quattro anni…pone sul foglio una rappresentazione del suo apparato psichico, il primo disegno, un luogo suo personalissimo, uno spazio solo suo in cui egli nasce, nuovo di zecca, e si conquista il primo territorio in cui pone un animaletto (l’animale essenziale) che li comprende tutti, racchiude tutto in un perimetro del foglio e traccia la barriera dell’incesto.
D’ora in poi anche lui avrà guadagnato, come del resto qualunque essere vivente, il suo posto nell’economia della natura, come suggeriva Darwin. Sarà padrone di un suo territorio, mentale.
Questa affermazione del filosofo Heidegger è molto significativa:
“Oggi l’uomo pone in gioco la potenza illimitata dei suoi calcoli…ovunque si fa avanti il gigantesco”. (Heidegger)
Le torri, le cattedrali, le moschee, i castelli e più tardi le ciminiere erano grandi. Ma costituivano il segno di riconoscimento di un luogo, erano tutto ciò attorno a cui ruotava un paese o una città.
Oggi l’architettura non è quasi mai pensata in funzione del territorio circostante, né di chi abiterà quel luogo. Oggi nessuno parla più di case.
Questo ribaltamento dei modi del costruire crea un’uniformità planetaria dell’estetica e dell’architettura. Ovunque si vada sembra di trovarsi sempre nello stesso posto.
Invece di ascoltare quello che chiedono i luoghi, cosa è meglio per loro, si cerca di costruire solo ciò che può stupire .
Ciò che dovrebbe essere fatto invece è un “operare riguardoso”. Ascoltare i luoghi, stare loro accanto, senza la volontà folle di impadronirsene.
La natura e l’architettura si fondevano in un solo paesaggio (una volta erano piccole chiese di campagna e fattorie circondate da prati e da alberi su colline bruciate dal sole, torri di pietra tra le rocce) la natura e l’architettura si fondevano in un solo paesaggio, in cui il materiale dell’una si fondeva/specchiava in quello dell’altra come un riflesso.
Il pieno accordo tra luogo naturale e l’opera dell’uomo era un tacito assioma, una legge quieta che, da Platone e Aristotele, è arrivata sino agli albori del secolo scorso.
Una sensazione di familiarità e di fierezza reciproche, così nascevano i luoghi.
Oggi la natura è trattata come una materia amorfa, da sfruttare per soddisfare bisogni nuovi (anche se non si sa quali essi siano).
Se il mondo è tutto uguale, ovunque guardi, il bambino/l’essere umano, vi vede lo stesso paesaggio traumatico (fatto di linee rette, di spigoli vivi, di finestre a nastro, di cementificazioni prefabbricate). Tutto è psicotico. Giacché proprio la psicosi omogeneizza il mondo, ma verso il basso.
D’altra parte cogliere i propri sentimenti e accettare di convivere con essi nel bene e nel male, non è qualcosa di scontato e naturale.
E’ al contrario una capacità che si sviluppa fin dall’infanzia attraverso esperienze relazionali (anche con natura e paesaggio quindi! ) in cui vi sia una certa espressività di sentimenti e che siano sufficientemente permeate di scambio emotivo.
Il bambino impara cioè a riconoscere e a distinguere i propri stati d’animo se li vede confermati, capiti o comunque colti dai suoi familiari.
Questo succede sempre più difficilmente nel nostro tipo di società in cui i rapporti sono più che altro instaurati con macchine tecnologiche (Tv, nintendo, cellulari ecc.).
L’individuo viene così condizionato ad accumulare dentro di sé, a negare e a reprimere l’emozione.
Si rischia anche di vedere la natura come qualcosa di superfluo e ornamentale.
Il tipico delirio degli psicotici è classicamente quello della fine del mondo.
Sembra invece che oggi la condizione delirante più pericolosa e socialmente più diffusa stia diventando quella opposta.
Questa condizione consisterebbe nel ritenere che il nostro territorio sia indistruttibile e che tutto continuerà come prima, nonostante i disastri che gli uomini vi combinano.