martedì 27 settembre 2011

Suoni, architettura e territorio alleati per una crescita armonica

I luoghi possiedono per noi un significato in quanto sono adesi, strettamente connessi a una stratificazione di sensazioni, di immagini che li fa vivere e che non è necessariamente la nostra.

Questo incontro parla anche di disegni che ognuno di noi ha fatto quando era bambino e che ogni bambino farà allo scopo di delimitare un proprio territorio psichico; dell’incuria che spesso l’uomo dimostra nei confronti del suo destino; della violenza che la tecnologia moderna opera sui nostri luoghi e sul nostro mondo, e infine degli stretti rapporti che intercorrono tra musica e architettura.

Del camminare silenzioso in una strada di campagna, di cortili abbandonati, della pioggia che cola sui vetri , di bambini che sentono musica e giocano a costruire castelli.

Sono le povere cose che testimoniano a volte un mondo perduto, a volte ritrovato, le cui tracce appena visibili costituiscono il tessuto della nostra vita.

Tracce, appunto, di territorio.

Nel territorio si innesta a forza l’architettura che da sempre ha cercato e trovato un profondo colloquio con i luoghi.

Ma negli ultimi cinquant’anni non più.

Roberto Peregalli, allievo dell’architetto Renzo Mongiardino nel suo ultimo libro

“I luoghi e la polvere. Sulla bellezza dell’imperfezione” racconta che nell’800 in Inghilterra sono nate diverse scuole di maggiordomi . Tra gli insegnamenti più complessi e difficili c’era la pulitura degli argenti. Il segreto è lasciare nelle scanalature gli annerimenti del tempo, cioè pulire solo la superficie senza toccare le “rughe” degli oggetti..

Questo è il tipo di sensibilità che dobbiamo imparare quando parliamo di armonia, musica, architettura, territori.

Descrizione del luogo della fobia.

Quando il bimbo inizia a disegnare…all’età di quattro anni…pone sul foglio una rappresentazione del suo apparato psichico, il primo disegno, un luogo suo personalissimo, uno spazio solo suo in cui egli nasce, nuovo di zecca, e si conquista il primo territorio in cui pone un animaletto (l’animale essenziale) che li comprende tutti, racchiude tutto in un perimetro del foglio e traccia la barriera dell’incesto.

D’ora in poi anche lui avrà guadagnato, come del resto qualunque essere vivente, il suo posto nell’economia della natura, come suggeriva Darwin. Sarà padrone di un suo territorio, mentale.

Questa affermazione del filosofo Heidegger è molto significativa:

“Oggi l’uomo pone in gioco la potenza illimitata dei suoi calcoli…ovunque si fa avanti il gigantesco”. (Heidegger)

Le torri, le cattedrali, le moschee, i castelli e più tardi le ciminiere erano grandi. Ma costituivano il segno di riconoscimento di un luogo, erano tutto ciò attorno a cui ruotava un paese o una città.

Oggi l’architettura non è quasi mai pensata in funzione del territorio circostante, né di chi abiterà quel luogo. Oggi nessuno parla più di case.

Questo ribaltamento dei modi del costruire crea un’uniformità planetaria dell’estetica e dell’architettura. Ovunque si vada sembra di trovarsi sempre nello stesso posto.

Invece di ascoltare quello che chiedono i luoghi, cosa è meglio per loro, si cerca di costruire solo ciò che può stupire .

Ciò che dovrebbe essere fatto invece è un “operare riguardoso”. Ascoltare i luoghi, stare loro accanto, senza la volontà folle di impadronirsene.

La natura e l’architettura si fondevano in un solo paesaggio (una volta erano piccole chiese di campagna e fattorie circondate da prati e da alberi su colline bruciate dal sole, torri di pietra tra le rocce) la natura e l’architettura si fondevano in un solo paesaggio, in cui il materiale dell’una si fondeva/specchiava in quello dell’altra come un riflesso.

Il pieno accordo tra luogo naturale e l’opera dell’uomo era un tacito assioma, una legge quieta che, da Platone e Aristotele, è arrivata sino agli albori del secolo scorso.

Una sensazione di familiarità e di fierezza reciproche, così nascevano i luoghi.

Oggi la natura è trattata come una materia amorfa, da sfruttare per soddisfare bisogni nuovi (anche se non si sa quali essi siano).

Se il mondo è tutto uguale, ovunque guardi, il bambino/l’essere umano, vi vede lo stesso paesaggio traumatico (fatto di linee rette, di spigoli vivi, di finestre a nastro, di cementificazioni prefabbricate). Tutto è psicotico. Giacché proprio la psicosi omogeneizza il mondo, ma verso il basso.

D’altra parte cogliere i propri sentimenti e accettare di convivere con essi nel bene e nel male, non è qualcosa di scontato e naturale.

E’ al contrario una capacità che si sviluppa fin dall’infanzia attraverso esperienze relazionali (anche con natura e paesaggio quindi! ) in cui vi sia una certa espressività di sentimenti e che siano sufficientemente permeate di scambio emotivo.

Il bambino impara cioè a riconoscere e a distinguere i propri stati d’animo se li vede confermati, capiti o comunque colti dai suoi familiari.

Questo succede sempre più difficilmente nel nostro tipo di società in cui i rapporti sono più che altro instaurati con macchine tecnologiche (Tv, nintendo, cellulari ecc.).

L’individuo viene così condizionato ad accumulare dentro di sé, a negare e a reprimere l’emozione.

Si rischia anche di vedere la natura come qualcosa di superfluo e ornamentale.

Il tipico delirio degli psicotici è classicamente quello della fine del mondo.

Sembra invece che oggi la condizione delirante più pericolosa e socialmente più diffusa stia diventando quella opposta.

Questa condizione consisterebbe nel ritenere che il nostro territorio sia indistruttibile e che tutto continuerà come prima, nonostante i disastri che gli uomini vi combinano.

domenica 25 settembre 2011

La strada degli orti

Ma non è quella che tutti conosciamo a menadito? Sì, proprio la stessa strada.
Però nessuno oggi sembra ricordarsene più.
E' l'esperienza del ritorno alla cura di un orto, alla letteratura sul territorio, al benessere che può indurre l'ascolto di un'antica melodia, del ritorno, in sostanza, a tutto ciò che sembra più vicino all'esperienza di un ritrovato Paradiso (terrestre?) da cui, del resto, tutti noi proveniamo.
Il territorio, la natura hanno una relazione antica ed imprescindibile con l'uomo.
Il mondo di oggi, spesso caotico ed alienante, porta l'individuo ad allontanarsi da elementi percettivi ed esperienziali che, invece, gli creano benessere e di cui ha necessità.
Questa riflessione è alla base della proposta La strada degli orti che vuole essere occasione per ripristinare, o almeno cominciare ad intravedere, un percorso personale di valorizzazione e recupero della propria sensibilità.
Tutto ciò potrà essere rivissuto domenica 2 Ottobre 2011 alla Fattoria delle Ginestre, a Genestrello, presso Montebello della Battaglia, in provincia di Pavia, nell'ambito delle attività dell' Ecomuseo della prima collina voluto, tra gli altri, da Silvana Sperati, fondatrice e animatrice della Fattoria e dall'Associazione Tracce di Territorio.
Dalle ore 15 in poi gli ospiti potranno rilassarsi nel verde delle colline, progettando un giardino rinascimentale, seguendo un laboratorio di scrittura e letture rurali o ascoltando e ricreando musiche antiche.
L'incontro si compone infatti di tre parti: la cura dell'orto, le tracce di territorio e le armonie nell'orto.
La partecipazione alla giornata comporta solo un piccolo e libero rimborso spese che sarà devoluto al nascente Ecomuseo della prima collina e sarà utile per conoscere un approccio metodologico che sarà sviluppato in un successivo ed articolato percorso formativo dedicato a: esperti del territorio, terapeuti, educatori, animatori, insegnati, appassionati.
Il tutto con la supervisione di tre esperti: Gian Battista Ricci, psicoanalista e conduttore di laboratori di Horticultural Therapy; Angelo Ricci, scrittore e operatore culturale; Annamaria Gheltrito, musicoterapista e cantante lirica.
In pratica questo incontro sarà un itinerario di ricerca, riflessione ed evoluzione personale che si avvale di un percorso metaforico, sia teorico che pratico, di reinterpretazione del rapporto tra uomo e natura nel segno più profondo di una vera cultura del territorio.

mercoledì 2 marzo 2011

Il discorso del re

Regia di Tom Hooper. Con Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter.
Il film è incentrato sulla coppia terapeuta/paziente e sulla narrazione di un rapporto di tipo psicoanalitico che lega un soggetto balbuziente e insicuro al suo "guaritore".
Tra il futuro re d'Inghilterra, in questo caso Giorgio VI, e il suo logopedista si instaura un legame di odio/amore tipico del setting analitico.
Il paziente sembra voler dire al terapeuta: "Ti odio ma ho bisogno di te. Ti detesto e ti disprezzo ma non posso fare a meno, come futuro re, di imparare da te a parlare in pubblico al mio popolo." Mai come in questo caso l'insegnamento del verbo, in qualunque modo si intenda interpretarne il significato, assume un carattere euristico e metaforico così forte.
E' la riedizione del rapporto che intercorre tra genitore e figlio e la più importante spinta verso la guarigione che in psicoanalisi prende il nome di transfert.
Come spesso accade il paziente non ha nessuna intenzione di guarire, anche se ne ha immenso bisogno, sopratutto nel momento in cui saprà di venire incoronato al posto del fratello che abdica a causa della donna amata.
Ma l'essere re o il divenirlo fortuitamente, come capitò a Giorgio VI, significa prima di tutto conquistarsi il diritto di signoreggiare sulle proprie paure, sul proprio stato di "essere" sottomesso a un destino biologico, in questo caso la disfunzione della loquela, destino che ha trasformato letteralmente l'individuo in una sequenza di balbettii da neonato.
E' da notare che in effetti questo futuro re non sembra nemmeno un re ma un paziente qualunque.
Ha ragione Elena Stancanelli a scrivere sul Venerdì di Repubblica del 25 febbraio 2011, nella rubrica Zona critica a pagina 154, di aver trovato "irragionevole" e anche "un pò stucchevole" il personaggio.
In realtà ogni paziente è spesso entrambe le cose ma tuttavia è proprio su questi scarti della psiche che è necessario lavorare analiticamente, e prima di tutto su noi stessi nel difficile compito di accettarli.
La figura del terapeuta possiede poi nella pellicola alcune caratteristiche fondamentali che mi hanno interessato. E' prima di tutto uno straniero, più precisamente un australiano, con tutti i pregiudizi che questo ha sempre comportato per gli Inglesi.
Dal punto di vista antropologico inoltre è lo straniero che possiede il fascino e analiticamente è una figura che rappresenta la seduzione , ciò che porta via con sè sulle tracce della guarigione.
E poi il logopedista Rush possiede nel film un bene prezioso e quasi insostituibile: una vita emotiva stabile ma estremamente creativa. Un inusuale rapporto di rispetto e collaborazione con la moglie, rapporto di cui si sono da tempo perse le tracce nella nostra vita civile. Ma sopratutto non ha legami con lo stato, con l'autorità costituita. Non è vincolato, come lo è uno psichiatra o uno psicologo, alla figura del "pubblico ufficiale", anzi non ha neppure un'abilitazione o un "pezzo di carta" che lo qualifichi. Ma è proprio questa la sua forza.
E' in sostanza una figura "etica" che si sostiene quasi esclusivamente sulla sua grande esperienza acquisita e maturata trattando i traumi di guerra dei reduci. Ricordiamo la sequenza in cui il medico di corte consiglia al futuro re, ai fini della guarigione, di tentare di parlare con dei sassolini in bocca; metodo classico ma non adatto all'occasione.
Ricordo ancora che lo stesso Freud cercò sempre di evitare l' eccessiva medicalizzazione della sua terapia consigliando di lasciare il giusto spazio alla pratica clinica dei non medici. Pratica empirica basata sul'esperienza che oggi sempre più spesso viene fin troppo facilmente definita "selvaggia" preferendole assurdamente una preparazione quasi esclusivamente accademica.
Anche della figura etica di cui ho parlato se ne sono da tempo perse le tracce.
In sostanza il personaggio assume le sembianze di un vice padre, un amico, un tutore, uno che soffre per la condizione del paziente e fa di tutto quanto è in suo potere un'arma per strappare alla malattia il malcapitato che si dibatte e, irragionevolmente e goffamente, non vuole guarire.
Il discorso finale commuove ovviamente non tanto per quel che dice ma per come lo dice.
Una ulteriore conferma, sostenuta anche da recenti ricerche neuroscientifiche, dell'assunto che la cura della sostanza passa anche attraverso la forma.

lunedì 28 febbraio 2011

Presentazione del progetto "Atlante di ecologia umana e dei suoni della Lomellina"


Sabato 26 Febbraio 2011, alle ore 10.30, presso la sede dell'Ecomuseo del paesaggio lomellino, a Palazzo Strada, in Ferrera Erbognone (PV), è stato presentato il progetto "Atlante di ecologia umana e dei suoni della Lomellina", creato dall'Associazione Tracce di Territorio.
Il compito dei ricercatori è stato arduo. Sia per la quantità di dati da recuperare sia per la distribuzione geografica: più di quaranta comuni sparsi sul territorio lomellino. Gli strumenti utilizzati vanno dalla distribuzione di questionari tematici all’inquadramento e calendarizzazione delle attività svolte nei vari comuni, dalla rilevazione territoriale e cartografica alla scoperta delle risorse intellettuali. La raccolta di tutte le informazioni desunte dai questionari distribuiti presso i comuni e da tutte le altre azioni, interviste e cartografie comprese, ha fotografato:
- La dimensione socio-demografica del territorio attraverso informazioni di prima mano sulla popolazione residente, le classi di età, gli indici di struttura, i movimenti anagrafici, la popolazione straniera residente e così via.
- La dimensione delle dinamiche sociali ha fornito dati sul sistema scolastico, sull’associazionismo e il volontariato, sulle emergenze minorili e giovanili.
- La dimensione economica ha preso in considerazione il numero di unità locali di impresa per settore, il numero di addetti, la mappatura delle eccellenze artigiane, l’inventario delle filiere.
E’ stata attivata una raccolta di informazioni relativa anche al:
- Settore turistico che ha monitorato la presenza di attività ricettive, la presenza e permanenza di turisti divisi per nazionalità, periodo e gradimento dei soggiorni nonché la dimensione economica dell’intero comparto.
- La dimensione ambiente e territorio ha fornito un’immagine reale dell’uso del suolo, della superficie agricola e dei suoi vari utilizzi, delle coperture boschive, delle aree protette e di quelle a rischio idrogeologico. E’ stata stilata una carta delle risorse paesaggistico-ambientali nonché una mappa dei sentieri e dei percorsi ciclo-pedonali. Infine la dimensione culturale ha permesso di evidenziare le cosiddette risorse sceniche, l’immagine che gli abitanti si fanno dei territori in cui abitano e le risorse intellettuali, narrative, filosofiche e tecniche, in sostanza non solo un quadro abbastanza completo di ciò che gli abitanti pensano del proprio territorio ma anche di ciò che si aspettano o temono che diventi in futuro. ”Una ricerca – ha spiegato il prof. Dipak R. Pant , direttore dell’unità di studi interdisciplinari per l’economia sostenibile presso l’Università LIUC di Castellanza – che servirà come strumento indispensabile a tutti coloro che vorranno esercitare, almeno per i prossimi venticinque anni, le future progettualità sul territorio lomellino”. La seconda parte del progetto, anch’essa ultimata con la collaborazione dell’Associazione Tracce di Territorio e coordinata dal prof. Gianni Pavan, direttore del Centro interdisciplinare di bioacustica e ricerche ambientali dell’Università degli studi di Pavia, è costituito da un lavoro di campionamento sonoro sia degli ambienti naturali, con tutte le specie presenti, che delle realtà tradizionali (rumori derivanti dal lavoro dei campi, suoni delle campane, rumori delle macchine agricole). “Si è così realizzata – spiega Pavan – una raccolta di suoni e rumori rappresentativa delle realtà locali, anche se non ancora esaustiva”.
Nella sede di Ferrera Erbognone dell’Ecomuseo verrà attrezzato un laboratorio sui paesaggi sonori della Lomellina, con tabelloni informativi e una presentazione multimediale che riguarderà i vari ambienti ecologici presenti nell’Ecomuseo, le specie animali, i relativi suoni.Il laboratorio permetterà a visitatori e studenti di sperimentare gli effetti delle tecniche di registrazione della natura e dell’ambiente antropico.Sarà inoltre messa a disposizione una strumentazione ad hoc per registrare, durante escursioni in campagna, i suoni delle specie presenti. Regione Lombardia, Fondazione Banca del Monte di Lombardia ed Eni hanno contribuito alla realizzazione di entrambi i progetti i cui risultati verranno al più presto pubblicati in volume e messi a disposizione della comunità dall’Ecomuseo del paesaggio lomellino.
Ha intodotto i lavori Fabio Rubini, vicepresidente dell'Ecomuseo del paesaggio lomellino.
Sono seguiti gli interventi di Guglielmo Cajani (Fondazione Banca del Monte di Lombardia), Remo Pasquali (direttore "Raffineria del Po" Eni di Sannazzaro de Burgondi), Giorgio De Pino (Eni spa), Dipak R. Pant (direttore dell'Unità di studi interdisciplinari per l'economia sostenibile presso l'Università Carlo Cattaneo-LIUC di Castellanza, Varese), Gianni Pavan (direttore del Centro interdisciplinare di bioacustica e ricerche ambientali-CIBRA, Università degli Studi di Pavia).

mercoledì 23 febbraio 2011

In auto sul ponte di Calatrava

Perchè stupirsi delle ovvietà? A parte l'ipotesi 'ragazzata' il ponte rappresenta una costruzione che con la città ha poco a che vedere. Lo hanno dimostrato ancora una volta questi ragazzi un poco alticci e magari in vena di superare qualche divieto. In realtà il ponte è uguale, almeno di notte, a qualunque altro ponte di qualunque altra tangenziale o bretella o raccordo autostradale del mondo.
Quindi perchè non percorrerlo alla stessa maniera di tutti gli altri?
Cioè con l'auto?
I soggetti risultano vittime del solito effetto 'misunderstand' dell'architettura cosidetta moderna. L'architettura che omogenizza le forme e qualunquifica le sostanze fino a non far più capire dove ci si trovi. A Venezia tutti i ponti hanno sempre avuto gli scalini perchè parte di un tessuto urbano in cui il trasferimento di uomini e merci avveniva per vie d'acqua, proveniente quindi da una esperienza storica e umana priva di auto e priva di trasporti su ruote. Anche oggi devono avere gli scalini se si vuole che nessuna auto ci monti su, e in effetti tutti i ponti ce li hanno gli scalini.
Tranne quello di Calatrava.
E' vero anche che a Venezia solo questo ponte, per come è progettato, sembra permettere il transito di veicoli.
Un ponte qui deve essere costruito con gli scalini perchè è solo in questo modo che si riesce a far capire ai passanti, che in altre città verrebbero chiamati pedoni, che il ponte si trova proprio a Venezia e che la città, come ogni altra al mondo, necessita di un alfabeto particolare che permetta la riconoscibilità della singolarità irripetibile del suo patrimonio storico e architettonico. La singolarità che permette alle costruzioni, ponti compresi, di dialogare con il loro pubblico di passanti, visitatori, turisti, pedoni.

sabato 17 luglio 2010

Musiche d'architettura

SEMINARIO A DENICE (AT)
15 MAGGIO 2010

MUSICHE D’ARCHITETTURA

Nel seminario di qualche anno fa vi ho parlato degli inizi di questa nuova ricerca che come spunto primario tenta di approfondire i complessi rapporti che intercorrono tra forma delle cose e risonanza che queste fanno scaturire all’interno della psiche.
Tutto ciò che vediamo o ascoltiamo lascia un profondo segno dentro di noi, una traccia che è stata studiata anche dai neuroscienziati.
Uno di loro, John Onians, afferma che : “…quando leggiamo un libro pensiamo semplicemente di avere imparato qualcosa, ma la verità è che le nostre reti neurali sono state riconfigurate da esso, proprio come potrebbe essere per l’esposizione passiva all’ambiente.”
Concentriamoci ora sul concetto di “esposizione passiva all’ambiente”.
In sostanza se vado a visitare una mostra di pittura e i quadri non mi piacciono non sarò costretto a rivedermeli ogni volta che esco di casa.
Li guarderò (verrò cioè sottoposto/mi sottoporrò a un’esposizione, in questo caso attiva) solo nel momento in cui sfoglierò il catalogo della mostra o acquisterò un quadro per tenermelo in casa.
Ora la stessa cosa può accadere anche con la musica. L’ascolterò se andrò a un concerto, di mia spontanea volontà, o acquisterò un CD e lo ascolterò quando voglio.
Tuttavia ciò non succede quando un rumore violento ci colpisce per strada, uno sferragliare di carrozze ai limiti di una ferrovia ci fa sobbalzare.
I rumori del traffico, anche se attutiti in varie forme, dopo anni di esposizione sugli esseri umani assumono le sembianze di una nevrosi o si somatizzano in una ulcerazione di qualche apparato anatomico, o creano qualche sorta di infiammazione , cioè una reazione dei tessuti dell’organismo a stimoli lesivi, con lo scopo di rimuovere o ridurre i danni.
Essa si manifesta con calore, arrossamento, gonfiore e dolore della parte colpita, a volte con impedimento funzionale. Infiammazione ha a che fare con le fiamme, con il colore rosso e tutti i suoi toni più accesi, il giallo, l’arancio e via dicendo, sfumature tipiche di un incendio, di una deflagrazione, però a dosi omeopatiche, graduate nel tempo.
Una specie di psicosi che agisce con discrezionalità. Ma sempre di psicosi si parla.

Anche le forme dell’architettura possono essere invasive come certi rumori.
Ci colgono inaspettatamente appena passato l’angolo di una strada, ci aggrediscono nel nostro quartiere quando sorgono inattese al compimento di una demolizione.
Ci attendono inesorabili ai confini delle città, aggrappate attorno alle nuove strade che fanno da apripista in quella piccola casalinga foresta che è la nostra, forse ancora per poco, accettabile campagna.
In Inghilterra per esempio non è così. La città è città e la campagna è campagna. Molto più semplice e logico. Nel sud della Francia è un po’ come da noi ma lì hanno molti più soldi da spendere in cose pubbliche e l’effetto non è così sgradevole (i marciapiedi sono quasi perfetti, l’illuminazione pubblica e la sua estetica sono quasi divine) il senso dell’abitare, cioè il desiderio di “abitare bene” e non solo abitare per abitare, come si fa con una tana o un riparo di fortuna, è più sentito. Forse è tutta una faccenda di rispetto per se stessi. Chi ne ha di più e chi di meno.

Leon Krier, architetto illuminato e intelligente, afferma che formulare giudizi sull’architettura e apprezzarne il valore è un problema che riguarda ciascuno di noi esattamente come il problema della qualità del cibo, che ci tocca da vicino quotidianamente.
Piaccia o no conviviamo con gli edifici ed è per questo che al riguardo siamo tutti intransigenti. Giudichiamo l’architettura di continuo, senza compromessi e nel modo più semplice – aggiunge Krier – trovando bello o brutto un luogo, una casa o una città, senza il bisogno di giustificare le nostre scelte se non coincidono con quelle dei critici o degli architetti famosi. Le città, gli edifici storici e l’estetica tradizionale sono generalmente così amati dalla gente, non a causa della ‘storia’, della ‘cultura’, della ‘memoria’ ma più semplicemente per la qualità superiore, per la bellezza evidente, per l’efficienza e la praticità che li caratterizzano.

Come un dolore incessante ottunde la coscienza così la sovraesposizione alla bruttezza intorpidisce il pensiero. La bruttezza è un fatto estremamente raro in natura; la bruttezza ambientale e architettonica elevate a sistema sono fenomeni squisitamente umani.
Abbiamo bisogno di una modalità di percezione del mondo che crei un equilibrio tra natura e ambiente antropico. La città tradizionale, che incarnava tale rapporto con la natura, può aiutarci a capire come poter trovare una via che ci conduca a un racconto nuovo sui modi di edificare e abitare il pianeta.
Questo equilibrio tra ambiente naturale e ambiente antropico è presente in modo evidente nei villaggi tradizionali greci, nelle comunità Pueblo e nelle piramidi Maya dove il paesaggio naturale viene esaltato dalle forme dell’intervento umano.
Per esempio possiamo concepire i templi come un’imitazione del Temenos (una specie di recinto sacro) circondato dai cipressi. Le volute ioniche sono derivate dalla spirale della conchiglia del nautilo, mentre le foglie di acanto adornano il capitello corinzio.

Lunedi 22 febbraio scorso è uscito sul quotidiano “La Stampa” di Torino, nella rubrica ‘arte e medicina’ , un articolo che esordiva così: “Buone notizie! Se la musica classica contemporanea, nonostante l’impegno non la capite potete mettere il cuore in pace. Non è colpa vostra ma del vostro cervello.”
Esso infatti, quando deve analizzare gli imput sonori va in cerca di precisi schemi ritmici e così facendo riesce a distinguere la melodia dal rumore. Il problema è che (come nelle forme dell’arte o dell’architettura) a partire da autori come Schomberg (o Le Corbusier) i compositori di sinfonie contemporanee hanno completamente stravolto l’andamento delle note, infarcendole per giunta di confusi suoni di sottofondo.
Così il cervello non sa più cosa sta ascoltando (leggi: ‘osservando’ nel caso dell’architettura) e fa fatica a classificare quel trambusto come musica (leggi: ‘come immagini sensate e armoniose’) .
La teoria è di Philip Ball, autore del volume : “The music Instinct”, “L’istinto della musica”. Ball ha consultato le ultime ricerche nel campo delle neuroscienze e ha scoperto che il rispetto di certe formule è essenziale per colpire nel segno l’attenzione e provocare un effetto di ‘piacere’ nell’ascoltatore. In caso contrario si rimane spiazzati. Il cervello è un organo che ha bisogno di schemi ricorrenti e cerca sempre di dare un ‘senso’ a ciò che sente o che vede. (vedremo in seguito qualche esempio pratico di forma architettonica poco ‘tonale’).
Musica contemporanea e architettura utilizzano esclusivamente ‘linee orizzontali’.
Da Schomberg in poi - come afferma Annamaria Gheltrito – il concetto di tonalità si è sgretolato così come è accaduto nelle forme artistiche e in architettura.

A questo punto mi sembra interessante accennare ai sei principi biologici della pittura, principi cui obbediscono tutto e tutti, da Leonardo allo scimpanzé Congo, secondo Desmon Morris, antropologo e biologo anglosassone.
1) Il principio dell’attivazione autoremunerativa, per cui l’opera è premio a se stessa;
2) il principio del controllo composito per cui si preferiscono uniformità, simmetria, ripetizione e ritmo;
3) il principio della differenziazione calligrafica per cui lentamente forme e linee si sviluppano distintamente;
4) il principio della variazione tematica per cui un tema viene prima cercato e poi lavorato secondo variazioni successive;
5) il principio dell’eterogeneità ottimale per cui ‘a un certo punto’ il dipinto è finito, completo, adeguatamente carico di colore;
6) il principio dell’ iconografia universale che dipende dal fatto che alcuni movimenti del braccio sono soddisfacenti dal punto di vista motorio, altri no.

Torniamo alla sperimentazione sul campo di forme architettoniche e musicali.
A un gruppo di pazienti è stato presentato questo compito che riferisco sotto entrambi gli aspetti, musicale e architettonico.

A) Musicale B) Architettonico

A1) Ascolto di una semplice melodia e richiesta di individuarne la sua metà, poi ancora metà e così via;
B1) Visione di una struttura architettonica (facciata) neoclassica (armonica) e
richiesta di individuarne divisioni verticali e orizzontali;
A2) In seguito le battute costituiranno un conglomerato caotico;
B2) una volta analizzate, le parti strutturali vengono smembrate per costituire un catalogo di elementi caotici;
A3) richiesta di costruire una melodia su elementi già conosciuti, su un canovaccio noto;
B3) ricostruire la facciata nuova con tali elementi già conosciuti su un canovaccio noto;


Di conseguenza possiamo vedere che si è attuata un’analisi strutturale sia della melodia che della forma estetica, con frasi, semifrasi e inciso, cioè parti della struttura musicale che come i mattoni dell’edificio hanno costruito una base , un piano nobile, un secondo piano, una serie di finestre con timpani e una balaustra, in sostanza i due procedimenti risultano analoghi.
E’quasi come esporsi all’osservazione di un antico palazzo demolito, anzi farlo demolire dal soggetto. Ora l’individuo viene invitato a destreggiarsi con elementi incandescenti che caratterizzano, come avviene anche nella poetica, un processo di distruzione/ricostruzione/edificazione.
La sofferenza sperimentata da chi osserva un antico palazzo in demolizione (o anche una parte di paesaggio) porta spesso a uscite poetiche perché si è stati esposti a elementi traumatici disgreganti.
Questa sofferenza, indotta artificialmente dalla sperimentazione, permette di produrre una riedificazione. Il paziente è attratto da tutto ciò perché in quel posto, il posto della poesis riconosce l’esistenza di una “lavorazione” che avviene anche, o soprattutto, all’interno di sé e di cui egli stesso ne è “lavorato”.

Se una fame eccessiva finisce per uccidere il corpo dovremmo chiederci quale parte del nostro animo la carenza di bellezza e di armonia finirà per sopprimere.


Vorrei concludere spendendo due parole sui tanti volumi di Autori, provenienti da tante esperienze diverse, che mi hanno dato prospettive interessanti sull’argomento. Primo fra i tanti Anthony Vidler con “Il perturbante in architettura” (Einaudi). Vidler è professore e preside della Cooper Union School of Architecture di New York e afferma che è soprattutto ai giorni nostri che il perturbante non soltanto ha assunto il ruolo di fondamentale metafora di una generale condizione di invivibilità ma è entrato addirittura a far parte della strumentazione linguistica del progettista.
Secondo Vidler i progetti e le opere di alcuni tra i più noti architetti contemporanei (Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, John Hejduk) mostrano un volto del tutto diverso da quello disimpegnato e ottimistico che solitamente appare: deformazioni, smembramenti, rotture, ben più che brillanti invenzioni stilistiche , risultano essere lo specchio infranto in cui si riflettono, in modo più o meno consapevole, la perdita di radicamento e l’angoscia oggi dominanti nel mondo.
Tuttavia a mio avviso non si deve essere succubi dell’emozionabilità dell’architetto. Egli è sì un artista ma in più è chiamato a salvaguardare un compito etico che si riassume con l’essere garante dell’abitabilità del mondo. Altrimenti l’architettura contemporanea, come già la musica e l’arte, saranno solo il testo finale di attività terapeutiche (architetturaterapia, arteterapia, musicoterapia) di cui va rigorosamente vietata l’esposizione pubblica dal momento che sono assimilabili a resoconti di sedute psicoanalitiche, di incontri terapeutici, di colloqui clinici.

Un’altra pubblicazione , di Einaudi, ha come titolo “Dove abitano le emozioni” , di Mario Botta (architetto) e Paolo Crepet (psichiatra) . Un libro che illustra il caso italiano come nazione “attapirata” tra città diffusa e carenza assoluta di regole, tra “sarchiaponi” dell’architettura e Gargamella della politica.

Bellissimo il volume , sempre Einaudi, di Rudolf Wittkover: “Palladio e il palladianesimo” che consiglio a tutti e dal quale ho tratto il mediatore del nostro esperimento: uno dei progetti di Colin Campbell che compaiono nel “Vitruvius Britannicus” (1715).
L’Autore ha indagato qui le radici e gli sviluppi del palladianesimo, l’immagine di Palladio e la sua fortuna a partire dall’incontro che valse a determinarla, tra l’opera del grande architetto veneto e l’innovatore dell’architettura inglese Inigo Jones.

Con grande interesse ho consultato il libro di Chiara Cappelletto: “Neuroestetica. L’arte del cervello” di Laterza, che inaugura una preziosa linea di indagine candidata, ormai sono in tanti, a ricompattare l’infelice separazione tra cultura e natura; vedi soprattutto le opere e gli insegnamenti di Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi e del gruppo di psicoanalisti della Pratica Freudiana a Milano.

Infine: “La città come opera d’arte” di Marco Romano, Einaudi e “Città senza cultura” di Giuseppe Campos Venuti, edito da Laterza.
Senza dimenticare ovviamente tutte le opere di Leon Krier e del suo allievo italiano Gabriele Tagliaventi.

sabato 10 luglio 2010

Cartelli segnaletici per i monumenti di interesse storico-turistico a San Giorgio di Lomellina


Il Rotary Club Cairoli rappresentato dal Vice Presidente avv. Giuseppe Giglia e dal dott. Gian Battista Ricci, in qualità di Presidente nell'annata 2008/2009 ha donato al Comune di San Giorgio di Lomellina una serie di sei cartelli segnaletici (del valore di circa settecento euro) da posizionare di fronte agli edifici storici del paese. Alla presenza del vice Presidente della Provincia Marco Facchinotti sabato scorso sono stati consegnati al sindaco, Lorena Basora, i cartelli inerenti i seguenti edifici di valore storico: la CHIESA PARROCCHIALE DEDICATA A SAN GIORGIO MARTIRE , edifico risalente al Cinquecento e terminato alla fine del 1700, l' ORATORIO DELLA CONFRATERNITA DEI SANTI ROCCO E SEBASTIANO, di cui presto verrà iniziata la ristrutturazione, il CONVENTO E CHIESA DI SAN FRANCESCO D'ASSISI, di proprietà privata e con un interessante chiostro, il PALAZZO MONTI (FANCHIOTTI) opera settecentesca in pieno centro storico, il PALAZZO CONTI MONTAGNINI DI MIRABELLO, con edifici di valore e un parco con alberi secolari e infine sul tracciato dell'antica via Settimia (ex statale 211) il PALAZZO ANNOVAZZI (PESTONI RICCI) in cui nacque, nel 1846, l'ammiraglio Giuseppe Annovazzi, coordinatore delle forze navali del Mediterraneo nei primi anni del Novecento. "E' importante riattivare la storia locale anche grazie a queste donazioni - ha affermato Facchinotti- i cartelli infatti, oltre a dare utili indicazioni ai turisti di passaggio, sono il modo ideale per iniziare a coordinare percorsi turistici sul territorio che tengano conto dei mille monumenti che le nostre terre affrono, specialmente in un'ottica di preparazione alle manifestazione e alle visite per l''Expò 2015 ".
"Si è voluto preparare cartelli contenenti ciascuno un riassunto della storia di chiese e palazzi- afferma Gian Battista Ricci, del Rotary Club Cairoli- per fare partecipi abitanti e visitatori occasionali della storia di ogni edificio perchè, come è noto a tutti, si amano e si tengono in considerazione solo le cose che si conoscono".
"In occasione della prossima festa patronale- ha aggiunto il sindaco- possiamo adesso pensare a un percorso guidato che faccia visitare ciascun edificio, compreso il campanile che con i suoi 83 metri di altezza, secondo la più recente misurazione, è senza alcun dubbio il più alto della Lomellina".